Quando ho letto che se n’è andato il leggendario chitarrista dei TEN YEARS AFTER immediatamente mi sono rivisto, ragazzino, seduto in un cinema con la bocca aperta e gli occhi spalancati per tutta la durata del film “Woodstock”. Era la fine del 1970 e non ci potevo credere: su uno schermo immenso c’erano i miei idoli, di cui avevo solo letto qualcosa, oltre ad aver consumato i loro dischi. Nell’attesa di Jimi Hendrix, che era scomparso da poco, vedevo lo schermo dividersi anche in tre parti per contenere varie inquadrature che raccontavano quei 3 giorni di pace amore e musica che sarebbero rimasti indelebili nella storia. Allora tutto era diverso, non c’era internet e i giornali musicali si occupavano prevalentemente degli idoli di casa nostra. Persino la notizia dello scioglimento dei Cream la lessi in un trafiletto piccolo. Non era la prima volta che vedevo suonare dal vivo su uno schermo questi musicisti che amavo. Era già successo con i film “Monterey Pop” e “Cream last concert”. Ma questa volta era diverso. Si trattava di cinemascope e di un evento che avevano visto in mezzo milione di persone. Accanto a star che conoscevo bene, c’erano delle sorprese come quel ragazzino ventenne, Michael Shrieve, che con Santana fece un assolo di batteria strepitoso o il gesticolare di Joe Cocker, che moveva le mani per colpire una chitarra immaginaria mentre cantava rantolando “With a little help from my friends” dei Beatles. Mi piaceva persino lo sdentato Richie Havens che urlava in continuazione “Freedom”. Non avrei mai comprato un suo disco, ma ci stava bene. Unica nota stonata gli Sha Na Na, ma come intermezzo andavano bene. Poi arrivò lui, Alvin Lee. Avevo tutti i dischi dei Ten Years After e amavo quel loro rileggere il blues in maniera a volte soffice, altre grintosa. Quando partì “I’m going home” con quella chitarra velocissima mi immersi tra le varie immagini dello schermo, scuotendo la testa a questo ritmo forsennato. Impossibile stare fermi. I primi piani del volto di Alvin si mescolavano alle veloci dita su una chitarra rossa che aveva il logo della pace stampato sopra. Puro rock’n’roll che inseriva riff di altri brani famosi, come “Baby plese don’t go”, “Blue suede shoes”, “Whole lotta shakin’ goin’ home”. Intanto sullo schermo il volto di Alvin Lee appariva ripreso da tre lati mentre cantava, per poi finalmente scatenare la chitarra, con assoli che lo caratterizzavano, quasi sincopati e interrotti nei fraseggi. Poi di nuovo il brano si adagiava, cresceva piano piano per eccitarsi nel finale frenetico. Alla fine, se ne andava sorridente, con un immenso cocomero (?!?) sulla spalla.
Poi arrivò la fine del film con Jimi Hendrix e io piangevo il mio idolo morto da poco. Piangevo vere lacrime, anche se lui sembrava lì, reale, con quel bellissimo vestito di frange, tutto bianco, jeans azzurri, bandana rossa e Fender bianca. La storica esibizione di Jimi non cancellò però gli 11 minuti di Alvin Lee e dei suoi Ten Years After. Dopo il film, noi amici passammo la notte a commentare quanto avevamo visto, ma non parlavamo di Hendrix: lui era l’alieno, non era spiegabile. Gli altri musicisti sì, quelli erano più accessibili. E parlammo a lungo di “I’m going home”, col chitarrista più veloce di quel film. Mai avrei immaginato, in quel bar all’angolo tra via del Borgo e via Irnerio, che un giorno avrei avuto in casa per due anni la chitarra che Jimi Hendrix suonò a Woodstock o che avrei intervistato quasi tutti gli eroi di Woodstock, compresi gli organizzatori e il regista del film. Alvin Lee, per uno strano scherzo del destino, non l’ho mai incontrato. Adesso che non c’è più in questa dimensione mi chiedo come mai. Ma continuo ad ascoltare i suoi album, soprattutto “Stonedhenge” e “Ssssh”. All’inizio della sua esibizione di Woodstock, Alvin disse che stava tornando a casa con l’elicottero. Questa volta ha usato lo StarGate.
Leggo, purtroppo, solo ora il tuo articolo ma come si dice non e’ mai troppo tardi. Ho amato come te Alvin Lee. Ho tutti i suoi dischi, quelli dei Ten Years After, e quelli della sua carriera solista. L’ho visto altresi sei volte in concerto con i Ten Years e senza. Donava sempre emozioni di un blues e un rock & roll mai scontato e di puro godimento. A Lugano nel 1982 mi passo’ di fianco e riuscii ad apoggiare la mia mano sulla sua spalla mentre si accingeva a salire sul palco del palazzo del ghiaccio per il suo infuocato concerto. Sempre con la sua splendida Gibson ES335 rossa sulle sue spalle. Non so suonare la chitarra ma per emulazione me la sono comprata anch’io quella chitarra, rossa e bordata di bianco come la sua. Mi basta ripetere il riff di “Love like a man” per sentirmi in paradiso. “Im goin home” no, quella e’ troppo difficile. Grazie Alvin.
Edoarxo